da AVVENIRE 12 marzo 2023
La riflessione del presidente della Cei: ci offre la testimonianza di una Chiesa vicina, madre, che parla senza timore di esporsi, che non ha paura di sporcarsi con il mondo
Roma Il Papa del Vangelo. Secondo il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, è questa la definizione più onnicomprensiva dei primi dieci anni di pontificato di Francesco. «Papa del Vangelo – sottolinea –. Della semplicità, della essenzialità, della radicalità del Vangelo. Di un Vangelo che parla al cuore degli uomini anche oggi e che ha ancora tanto da dire per consolare e per aprire al futuro di ogni persona. Mi ricorda la semplicità con cui Gesù parlava alle folle».
È questo, dunque, il motivo per cui viene apprezzato anche da quelli che una volta si definivano i “lontani”?
Ritengo di sì. Ma intendiamoci. Tutti i Papi sono Papi del Vangelo. Quando chiamiamo Giovanni XXIII il “Papa buono” non è che gli altri erano cattivi. Ma egli comunicava questo senso della bontà di cui tutti abbiamo bisogno. Allo stesso modo Francesco sa comunicare il senso di un Vangelo vicino. Cioè sa tradurre il messaggio evangelico liberandolo dalle precomprensioni, in modo che tutti si sentono compresi in questa sua capacità di arrivare al cuore. Il suo magistero libera da tante incrostazioni, da tante ideologizzazioni che a volte impediscono la relazione e l’empatia con le persone e apre all’accoglienza.
Lei vede più elementi di continuità o di discontinuità nel decennio di Francesco?
A mio parere sono di più quelli di continuità. La tradizione non è mai la conservazione, il guardare sempre indietro o il “si sé sempre fatto così”. La tradizione è comunicare quel tesoro, spendendolo. In realtà Francesco è il primo papa che fa suo il testo di un predecessore (la Lumen Fidei già in gran parte preparata da Benedetto XVI), aggiungendovi elementi suoi. Non dimentichiamo poi il costante richiamo al Concilio e a Paolo VI, che dà proprio il senso della tradizione e della continuità. Certamente poi vi sono anche delle discontinuità, ma queste attengono all’originalità propria di ogni pontificato.
«È un magistero molto fecondo che unisce spirituale e sociale Dividere questi due aspetti, cioè interpretarlo solo come un Papa sociale, vuol dire non accorgersi della potenza del suo messaggio»
Ci può fare degli esempi?
Il primo è la richiesta alla folla, la sera in cui fu eletto, di pregare Dio perché lo benedicesse, prima ancora di dare lui la benedizione. A mio parere lì c’è una discontinuità rispetto al rapporto tra il suo servizio e il popolo di Dio. Il secondo è il primo viaggio che ha fatto. Non si è recato in nessuna capitale o in nessun luogo noto o a un santuario, ma a Lampedusa. E oggi vediamo quanto, purtroppo, quella scelta sia ancora tragicamente attuale. Anche la decisione di vivere a Santa Marta come segno di prossimità è in discontinuità. Così come tornare insieme ai cardinali dopo il Conclave, nello stesso pullman. Gesti che fanno comprendere come primato, collegialità e sinodalità siano secondo la sua visione profondamente uniti.
Francesco e Benedetto, insieme in Vaticano. Che messaggio è stato per la Chiesa e per il mondo?
Un messaggio molto bello di una vicinanza che vorremmo fosse così per tutti e per sempre. «Quando avevo bisogno di un consiglio andavo da lui e il suo consiglio per me era importante », ha detto Francesco. Ecco un’altra indicazione di continuità. Ma non è soltanto funzionalistica, ma soprattutto affettiva.
Qualcuno sostiene che le grandi novità del pontificato vadano ricercate soprattutto sul piano sociale, basti pensare a Laudato si’ e Fratelli tutti. Lei è d’accordo?
Direi che è un pontificato molto fecondo, che unisce l’ortoprassi e l’ortodossia. Lo spirituale e il sociale. Aiutandoci a capire sia l’uno sia l’altro singolarmente, ma anche quanto siano strettamente uniti. Pensare di dividere i due aspetti, cioè pensare di interpretare Francesco come fosse solo un Papa sociale significa non accorgersi della potenza complessiva del suo messaggio. Uno dei documenti a mio parere più importanti del pontificato è la Gaudete et exsultate che presenta una santità possibile a tutti. Ed è ciò che unisce lo spirituale al sociale. Ma uno spirituale che non è ridotto a intimismo, a evasione dal mondo e un sociale nel quale siamo aiutati a toccare la presenza di Cristo. Penso ad esempio alle due giornate che ha istituito: la Domenica della Parola e la Giornata dei poveri, momenti che rimandano al legame con l’Eucaristia.
«Un rapporto di grande ascolto e responsabilità con la Chiesa italiana. Il privilegio di averlo così vicino non è mai motivo di vanagloria ma di maggiore servizio a Gesù e alla gente»
Nei poveri tocchiamo la carne di Cristo, dice il Papa.
Esatto. E dovremmo chiederci perché lo dice. Perché tante volte abbiamo più una fede da laboratorio e anche un sociale da laboratorio. Un incontro con i poveri che rischia di essere con una categoria e non con delle persone, con una ideologia e non con la presenza di Cristo. Non a caso ci ha messo più volte in guardia contro il pelagianesimo e lo gnosticismo. Non sono allegorie archeologiche, ma atteggiamenti molto frequenti che hanno rappresentato delle scorciatoie o delle presunzioni nella storia recente del cristianesimo.
Quali aspetti sono passati di più nella Chiesa e nel mondo del magistero di Francesco?
La Chiesa vicina, la Chiesa madre, la Chiesa che parla e non ha timore di esporsi, la Chiesa che non ha paura di sporcarsi con il mondo. Che non vede il contagio fuori ma il contagio dentro, che non si difende ma incontra, che non sta al chiuso ma trova se stessa all’aperto, che non si mette al centro ma che proprio perché è in periferia trova il centro.
E che cosa non è passato? Penso l’aspetto della sinodalità, sul quale ci stiamo interrogando. Una domanda non retorica, che aiuterà la Chiesa a completare il Concilio e a vivere con degli strumenti adeguati il suo essere comunità e la sua missione nel mondo.
Com’è il rapporto tra Francesco e la Chiesa in Italia? Un rapporto di grande ascolto e anche di grande responsabilità. Perché siamo la Chiesa più vicina e questo ci spinge ancor più a far nostro il suo messaggio. Come lui vuole che la Chiesa di Roma sia un esempio per tutte le Chiese, così penso che debba essere per la Chiesa italiana. Il privilegio di averlo così vicino non è mai motivo di vanagloria, ma di maggiore responsabilità e di servizio al Vangelo e al mondo.
Si è parlato di qualche frizione. Esagerazioni giornalistiche o momenti di confronto franco destinati alla crescita? Il rapporto con papa Francesco certamente ha fatto crescere la Chiesa in Italia perché ci ha dato responsabilità. Il Papa, quando incontra i vescovi e tutte le altre realtà, ascolta, si lascia interrogare, interroga per capire. Così questo atteggiamento ha fatto giustizia di tanti ecclesiasticismi e ci aiuta a ritrovare l’essenziale e la responsabilità della comunione.
Quali frutti aspetta il Papa dal cammino sinodale in atto? Una Chiesa più snella, che non vive di strutture, ma usa le strutture per andare di più incontro a tutti. Come disse a Firenze, «una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza».
Quale regalo farebbe al Papa per questo anniversario? Ricordo il pranzo con tutti i poveri, i deboli, i fragili nella Basilica di San Petronio, quando visitò Bologna. Questo penso sia il regalo più bello che lui desidererebbe e che noi potremmo fargli. Una Chiesa piena di fragili, di deboli, che consuma questo atto di amicizia e di amore che il Signore ci ha affidato. E sarebbe anche il modo migliore per dire grazie. A Dio di avercelo donato e a lui per la fedeltà al Vangelo che testimonia ogni giorno.